Marco Lodoli | Il rinoceronte

   La rovina cominciò con un gioco.    Mancavano dieci minuti alla fine della lezione, gli alberi nel cortile erano fioriti e i ra...



  
La rovina cominciò con un gioco.
  
Mancavano dieci minuti alla fine della lezione, gli alberi nel cortile erano fioriti e i ragazzi parevano distratti, allora la professoressa Roberta chiuse il libro di letteratura italiana e disse: - Facciamo un gioco.

Roberta sapeva bene quando allentare le briglie, vent' anni d'insegnamento le avevano formato nella mente un organo nuovo, capace di percepire il livello dell'attenzione.

Si rivolse a Caterina, la sua allieva preferita. La ragazza non era certo la prima della classe, navigava tra il cinque e il sei, ma aveva negli occhi una luce bella che le rischiarava il volto piccolo e rotondo, da gattina. E aveva le mani intelligenti, così pensava Roberta, che sapevano come muoversi, cosa    afferrare e cosa lasciare.

- Scegli un numero da uno a nove, -le disse. - Fatto.

- Bene. Adesso moltiplicalo per nove.

- Fatto.

Roberta dava le indicazioni come se le inventasse sul momento, con il tono casuale di chi avanza un passo alla volta.

- Allora adesso avrai un numero di due cifre. Sommale tra di loro e sottrai cinque.

- Sommo, sottraggo, ecco fatto.

Sorrideva, Caterina, e anche gli altri alunni sorridevano, seguendo nelle loro teste le operazioni.

- Adesso avrai un numero di una cifra sola. Dunque, se questo numero è uno corrisponderà alla lettera A, se è due alla lettera B, e così via, hai capito?

- Certo.

- Allora scegli uno stato europeo che inizi con la lettera corrispondente al numero che ti sei ritrovata.

- Scelto.

La professoressa Roberta sapeva che alla fine di quella strana operazione matematica il numero era sempre quattro quindi la lettera era la D, e lo stato non poteva essere che la Danimarca.

- Ora di questo stato europeo che hai scelto liberamente prendi la quarta lettera, anzi, facciamo la terza, e trova un colore che abbia quell'iniziale. La lettera era la enne e il colore era sicuramente il nero, non c'era scampo.

- Bene.

- Dunque, cara Caterina, stai attenta. Anche stavolta prendi la terza lettera di questo colore che tu, tra molti colori, hai scelto. Ora pensa a un animale grande e grosso, abbastanza feroce, brutto e solitario, che carica i nemici e che inizia per la lettera che hai in mente.

Il percorso del gioco era obbligato, si arrivava sempre sulla stessa casella. A questo punto Roberta, fingendo stupore, diceva la battuta che concludeva quel meccanismo, e la battuta era: «Ma come diavolo t'è venuto in mente un rinoceronte nero in Danimarca?» e tutti rimanevano a bocca aperta, come davanti a una magia.

E così, anche stavolta, la professoressa disse: - Ma come diavolo t'è venuto in mente...

- Una Roberta nera in Danimarca, -la interruppe Caterina, e la classe esplose in una risata.

– Questo gioco ce l'aveva già fatto due mesi fa, - disse un ragazzo dell'ultimo banco, e tutti iniziarono a mettere in fretta i libri negli zaini, perché la campanella suonava ed era tempo di tornare a casa.

- Arrivederci professoressa, - disse Caterina passandole davanti, leggera e aggraziata come una piuma.

Roberta rimase seduta dietro la cattedra, sola nella classe vuota.

Vent'anni nella scuola, mai un giorno d'assenza. Anzi, a dire il vero cinque anni prima era mancata per tre giorni, quando il medico le aveva consigliato una clinica per perdere peso. Era arrivata a cento chili, indossava solo caffettani e sandali e non riusciva a smettere di mangiare. La sera, nel suo bilocale al settimo piano di un palazzone della Prenestina dopo aver corretto i compiti e preparato coscienziosamente la lezione del giorno dopo, mangiava come un'ossessa. Pasta, scatole di fagioli, pizze ancora congelate, pane e maionese, pane e cioccolata, manciate di caramelle, tonno, alici, salsa rossa, non poteva fermarsi. Tre giorni era rimasta in clinica, e poi era scappata. Non riusciva a stare lontana dalla scuola e dal suo frigorifero. La sua vita batteva come un pendolo tra quelle due soddisfazioni. Il resto era malinconia, solitudine, amiche che non chiamavano più e uomini che non avevano mai chiamato. Ormai Roberta aveva cinquant' anni, sapeva che le cose non sarebbero cambiate. Per un lungo periodo aveva sognato quasi ogni notte un neonato biondo e con i denti aguzzi, lo stringeva al seno, lo carezzava, gli diceva figlio mio, hai fame? Non piangere, mordi, mangiami, la tua mamma è qui che ti vuole bene e ti nutre.

Poi il bambino era scomparso e Roberta s'era messa l'anima in pace. 1 miei figIi sono i miei alunni, pensava. Io li proteggo, li incoraggio, provo a spiegare loro cos'è la bellezza. ln vent'anni non aveva mai bocciato nessuno. Se li ricordava tutti, dal primo anno a oggi, classe per classe, nomi cognomi e volti. Alcuni erano anche diventati ricchi e importanti, ingegneri, sindacalisti, attori televisivi, une addirittura viceministro, e alcuni erano già morti in incidenti stradali o per malattie crudeli: ma nel cuore di Roberta, o Robertona, come la chiamavano i colleghi, i suoi alunni erano tutti uguali, erano i suoi ragazzi adorati.

Per questo c'era rimasta tante male quando Caterina aveva detto il suo nome invece di rinoceronte. Lo so di non essere bella, d'avere un corpo pesante, lo so che nella vita vado avanti da sola, a testa bassa, ma perché mi ha paragonato a un rinoceronte? E stata cattiva, Caterina, e gli altri hanno anche riso. Tutti sono stati cattivi, ma Caterina più di tutti.

Il bidello venne a informarla che la scuola chiudeva ed era ora di andare a casa, le chiese anche se c'era qualcosa che non andava. Roberta mise in silenzio i libri e il registro nella borsa di plastica trasparente e uscì. L'autobus le si fermò davanti, ma lei non salì. Fece la strada a piedi fino a casa, ruminando pensieri come erba amara.

Sono grossa e sola, sono brutta. Gli alunni ridono di me. Forse tra di loro mi chiamano il rinoceronte da tanto tempo, e io non lo s.apevo. Forse è un soprannome che mi porto dietro da anni, i ragazzi che finiscono la scuola lo consegnano a quelli che iniziano e cosÎ via, da tanto tempo. Però Caterina non doveva sbattermelo in faccia, non me lo meritavo. Io l'ho sempre aiutata, ricordo ancora quando in seconda la volevano respingere e io mi sono alzata in piedi e ho parlato di lei per dieci minuti, cercando di spiegare agli altri professori che Caterina era una creatura fragile, un fiore piccolo e tremolante, e che non dovevamo strapparla dalla scuola. I colleghi dicono che sono troppo sentimentale, una zia sempre pronta a perdonare, ma volere bene agli alunni è forse un difetto? Però adesso ho capito di colpo che gli alunni a me non vogliono bene. Approfittano della mia debolezza per essere promossi, fingono di ascoltarmi, ma poi ridono alle mie spalle, ridono dei miei cento chili, mi chiamano il rinoceronte.

Nell'anima di Roberta per la prima volta si posò il seme dell'odio, e nessun uccellino venne a beccarlo, il vento della primavera non lo portò via con sé, la pietra non lo respinse: quel seme trovò la terra giusta e attecchì in un istante.

A casa la professoressa si sdraiò subito sul letto, senza togliersi nemmeno le scarpe, e provò a dormire, a dimenticare, ma era come se una lancia le affondasse nella nuca e rispuntasse come corno aguzzo sulla fronte. Allora si alzò, si preparò un caffè e prese i compiti che doveva correggere, la matita rossa e blu. Dal mucchio estrasse il tema di Caterina e iniziò a leggerlo. Era scritto secondo le sue raccomandazioni: siate spigliati, concreti, personali, non vi consumate in ragionamenti astratti - così diceva sempre Roberta ai suoi alunni. La traccia del tema era: «Le palestre aumentano e le librerie chiudono, come mai?» Caterina raccontava una serata nella piscina che frequentava abitualmente, descriveva i muscoli dell'istruttore biondo, le cento vasche a stile libero, l'ignoranza felice degli spogliatoi dove tutte parlavano di balsami per i capelli e di glutei rassodati. Nella terza colonna descriveva il silenzio un po' triste di una libreria, gli occhiali e le spallucce di chi sbirciava negli scaffali. Roberta lesse due volte il tema per scovare un apostrofo assente e un congiuntivo sbagliato. Cerchiò gli errori con un vortice blu, poi scrisse il giudizio: componimento superficiale - e mise il voto: tre e mezzo. La mano le tremava così tanto che rovescio il caffè sul foglio.

Dal cassettone del corridoio prese un album di fotografie. Ordinate anno dopo anno c'erano le foto di tutte le classi in cui aveva insegnato. Gruppi di venti, trenta ragazzi sorridenti, e lei sempre in mezzo a loro, sempre più grossa. La moda cambiava, i ragazzi avevano jeans larghi e corti, e poi lunghi e stretti, magliette con il collo decorato da caratteri cirillici, bandane e felpe colorate, scarpe paramilitari e da ginnastica, zazzere e rasature secondo quello che dettava il tempo: solo Roberta era vestita sempre nello stesso modo, con le palandrane arabeggianti che nascondevano il corpaccione. Nelle foto dei primi anni lei sembrava la chioccia che proteggeva i pulcini. Nelle ultime sembrava un animale strano catturato dai selvaggi. Così ora le pareva, e dentro le montava una rabbia nuova, e anche la voglia di lanciare un barrito di rivolta.

A quasi tutti i temi mise l'insufficienza, anche se il voto più basso rimaneva quello di Caterina.

Roberta passo la notte guardando la televisione. Si era fatta montare la parabola per seguire i documentari d'arte: vide una biografia di Van Gogh, poi girò sui canali che trasmettevano film pornografici. Non stacco gli occhi neppure per un attimo dai corpi che si ammucchiavano nell'amore, da quei seni tondi che venivano stretti da giovani infoiati, da quelle smorfie conturbanti. Da sola bevve mezza bottiglia dell'amaro che da due anni teneva per gli ospiti e di cui nessuno aveva mai approfittato.

La mattina arrivò a scuola con mezz' ora di ritardo, senza essersi fatta la doccia e senza spazzolarsi i capelli. Il preside la guardo male, o almeno così parve a Roberta. In vent' anni, i giorni in cui non era stata puntuale si potevano contare sulle dita di una mano, e Roberta se li ricordava tutti, perché ogni volta si era sentita male ed era rimasta a scuola un po' di più, a rimettere a posto i libri in biblioteca o a sistemare i registri.

Stavolta si fermò davanti al preside e disse: - Che c'è?

- Niente. È un po' tardi.

- E allora?

- Vada in classe, professoressa.

ln classe non voIle fare la lezione prevista, volle subito interrogare.

- Vieni, Caterina, - ordinò.

- Ma abbiamo le interrogazioni programmate la prossima settimana.

- Non importa, qui decido io.

Le chiese tutto su Vincenzo Monti, le fece leggere e commentare dieci versi dell'Ode al signor di Montgolfier. Caterina si arrampicò sugli specchi del cielo, provò qualche risposta e poi tacque.

Roberta non la mollò per tutta l'ora. - «Il gran prodigio immobili / i riguardanti lassa / e di terrore un palpito / in ogni cor trapassa... » Avanti bellina, spiega, commenta, inquadra.

- Non sono preparata.

- Male, malissimo. «Sorge il diletto e l'estasi / in mezzo allo spavento / e i piè malfermi agognano / ir dietro al guardo attento». Che significa, chi è che si sta spaventando?

- Non lo so. Io no, comunque.

- Devo metterti un bruttissimo voto, vai pure Caterina, mi hai deluso.

A ricreazione Roberta comprò tre pizzette, si chiuse a chiave nel bagno, si sedette sulla tazza e le divorò in un minuto. Quando tornò in classe, vide che sulla lavagna era disegnata a gessetto una mongolfiera con i riccioli, la faccia e gli occhiali: si sosteneva nel cielo a forza di puzze. Era lei, Roberta, e sollevava una cesta su cui stava Caterina.

Roberta andò nella stanza del preside e chiese un permesso per and are a casa.

- Ho un dolore qui, - disse puntandosi l'indice sulla fronte, dove sentiva crescere il corno furibondo.

- Si riposi un paio di giorni, - la consigliò il preside.

Ma Roberta non tornò subito a casa. Prima andò in centro e in una profumeria compra il profumo piu caro, e comprò anche un rossetto e delle calze velate, una blusa a fiori azzurri e rossi, una gonna nera, scarpe con il tacco alto, mutande di pizzo, un chilo di gelato.

A casa indossò i vestiti nuovi e si guardò allo specchio: era peggio di prima, un animale del circo abbigliato per far ridere la gente, un animale che mangiava il gelato con il cucchiaio. Cominciò a battere la testa contro l'armadio, fino a crepare il legno. Pensò che aveva letto tanti libri perché non aveva avuto niente di meglio da fare. Ho amato tanto i miei alunni perché mi sentivo sola. Perché loro mi odiano? Dio mio, se non ci fosse la scuola, io non saprei dove andare.

Così la mattina dopo ritornò a scuola, con venti minuti di anticipo sull'inizio delle lezioni. Fuori dall'ingresso i maschi fumavano seduti sui motorini, e accanto a loro le femmine ridevano, si toccavano i capelli, piegavano il collo dolcemente. Caterina teneva per mano il suo fidanzatino, un ragazzo magro e spettinato, con la faccia da cantante. Si davano un bacio sulla bocca, e poi parlavano piano, con le teste vicine, come se avessero segreti bellissimi.

Roberta provò ancora verso Caterina un'avversione dura. - Ciao Caterina, - le disse.

- Buongiorno professoressa.

Negli occhi di Caterina e in quelli del fidanzato Roberta vide una luce sghignazzante. Le sembrò anche che si toccassero con il gomito, e immaginò che lui avesse sentito cento volte parlare del rinoceronte. È un mostro, un pachiderma, una donna senza amore. Va avanti e non si sa perché, chiusa in una corazza di carne. Sbatte ovunque, ha le zampe grosse piene di lividi. Si estinguerà presto.

Mi devo difendere, pensò Roberta chinando il capo.

In classe di nuovo chiamò Caterina, stavolta insieme ad altri due allievi, per confondere, come nel gioco delle tre carte. Fece girare velocemente le domande, non si capiva neanche chi doveva rispondere e a che cosa, ma alla fine la carta perdente era Caterina.

Continuò così per tutto l'anno. Qualche ragazzo cominciò a lamentarsi nei corridoi: - La professoressa ce l'ha con Caterina, l'ha presa di punta, la vuole bocciare.

Caterina invece diceva: - Devo studiare di più, ma non ci riesco, - e diventava triste. Non aveva piu quella luce bella negli occhi, teneva le mani intelligenti sempre nelle tasche di una vecchia giacca da uomo. Fuori dalla scuola non c'era più il fidanzato ad aspettarla sul motorino.

Roberta venne convocata dal preside. - Corre voce che ci sia qualche problema in quarta con un'alunna.

- Non mi pare, - rispose Roberta stringendo al petto una scatola di biscotti al cioccolato. - Può controllare i registri i compiti, il programma, può fare tutti i controlli che vuole; è tutto in regola come sempre. Insegno da vent' anni, so come si fa.

Si sentiva accerchiata, Roberta, e tirava cornate nell'aria che annunciava tempesta. A casa ogni tanto tirava giù un po' di libri dagli scaffali della sua biblioteca e andava a venderli per due soldi a un rigattiere. Si sentiva enormemente infelice e aveva bisogno di molto spazio intorno a sé. Dormiva poco, vestita, inquieta, con la televisione sempre accesa e le bottiglie vuote sul pavimento. Sognava che Caterina la picchiava con un bastone sulla groppa.

Il giorno degli scrutini finali fu una battaglia.

Roberta lasciò che tutti gli alunni venissero aiutati, lei pure alzò dei cinque a sei, e anche dei quattro a cinque e poi a sei, in ascensioni miracolose. Il preside voleva sbrigarsi e passare alla classe successiva, gli insegnanti volevano chiudere in fretta, mettere le firme e andare in vacanza.

- Mi dispiace, ma Caterina non può essere promossa, vedo che ha parecchi cinque ed è gravemente insufficiente nelle mie materie, non merita di proseguire, - disse Roberta.

Cominciò una discussione estenuante. L'inferno chiedeva con decisione quell'anima e il paradiso non sapeva come salvarla. Ci furono accuse e minacce, grida e suppliche, conteggi e insulti e mille discorsi, ma Roberta tenne duro. Il preside, fulminandola con gli occhi, le disse che rischiava un'inchiesta, forse addirittura una sospensione dall'insegnamento, ma quelle parole le rimbalzarono contro come frecce su una corazza.

- I voti dicono che non pua proseguire, è così, - diceva Roberta, e batteva con forza gli zoccoli sul pavimento.

Si fece scuro, dalla finestra aperta entrava un'aria fredda, per stanchezza a uno a uno gli argomenti si affievolirono e poi si spensero.

Alle dieci di sera Caterina venne bocciata.

Sono passati gli anni. Roberta ha continuato svogliatamente a insegnare, ripetendo le lezioni come un disco impalverato. Non voleva imparare neanche più i nomi degli alunni, li chiamava coso o bellina, metteva sei a tutti senza ascoltarli. L'amarezza le era entrata dentro come un veleno che non poteva sputare. Durante i compiti in classe, in quelle ore di noia e di attesa, riempiva un foglio protocollo di bestemmie, fino a farlo tutto nero, illeggibile.

Nella vita io non ho avuto niente, pensava, neanche un attimo d'amore. Sono una bestia feroce e devo solo nascondermi per non essere uccisa. Sono un peso di cento chili scaraventato sul mondo. Mi piaceva insegnare, ma cosa può insegnare una come me?

A volte, il pomeriggio, Roberta cammina per le vie commerciali, dove la gente scorre come un fiume e nessuno bada a chi ha accanto. Guarda gli abiti eleganti nelle vetrine, immagina feste e balli, e anche laghetti con cigni, giardini con levrieri, luoghi dove nessuno la inviterà mai. I rinoceronti vivono da soli sulla Prenestina, pensa.

E un giorno Roberta entra in un negozio dove si vendono a metà prezzo bei vestiti che hanno qualche piccolo errore di fattura. Tocca con la punta delle dita giacche e gonne appese fitte fitte aile stampelle, e le sembra di toccare un sipario di stoffa oltre il quale forse c'è una felicità, ma che per lei non si pua alzare.

E poi vede Caterina. È cambiata, è vestita da donna e pare più alta, ma è sempre Caterina, muove le mani con cura e precisione sistemando dei maglioni su uno scaffale. Roberta vorrebbe uscire di corsa, e invece le gambe grosse sono fer    me, bloccate come nei sogni.

Caterina le va incontro con la faccia seria.

- Buongiorno professoressa, - e sorride.

- Ciao Caterina.

Da dietra un tavolo esce un bambino piccolo e riccio, e viene ad abbracciare le ginocchia di Caterina. Dice parole che Roberta non capisce: ma in quel momento Roberta non capisce niente, il cuore le batte forte e la paura e la vergogna la fanno sentire come un topo nell'angolo, pronto ad aggredire.

- Buono Manuel, non è ancora l'ora della merenda. Le serve qualcosa, professoressa?

- No, niente, guardavo.

- Abbiamo vestiti molto belli, e costano poco.

- Lavori qui da tanto?

- Si, quasi subito dopo che ho lasciato la scuola ho iniziato a lavorare.

- Ti trattano bene?

- Il negozio è mio. Di mio marito e mio. Se lo ricorda quel ragazzo che mi veniva a prendere, vero? Ci siamo sposati presto, stava arrivando Manuel.

Roberta sente il sudore che le cola lungo le cosce. Sente che deve parlare, giustificarsi, ma rimane zitta.

E allora Caterina dice: - Ha fatto bene a bocciarmi, professoressa, studiare non mi piaeeva, non era la mia strada. Ha fatto bene, davvero. Ora sono feliee, per quanto si può essere felici in questo mondo.

- Studiare è importante, però.

- Leggo qualche libro, ho ancora un elenco di romanzi che lei ci consigliò. Li ho comprati tutti e poco alla volta li leggo. Va bene così.

Roberta tiene gli occhi bassi: accanto alle gambe lunghe di Caterina, alla testa riccia del figlio, ora ci sono dei pantaloni scuri.
- Buongiorno professoressa, - dice una voce calma. Roberta stringe la mano a quel ragazzo che non è piu solo un ragazzo, ma anche un uomo.

- Caterina mi parla ancora di lei.

- Ho fatto tanti errori, - mormora Roberta, quasi tra sé e sé.

- Venga a trovarci quando vuole, le faremo buoni sconti. - Arrivederci professoressa, noi siamo sempre qui, la aspettiamo.

- Arrivederci Caterina.

La strada è un fiume in piena. Roberta cammina piano, e la gente la urta. Non sa più qual è la direzione per tornare a casa, dove deve andare, cosa deve pensare. Sente che tutto nel mondo accade senza un motivo, eppure precisamente, seguendo un ordine che muove le cose e le persone e le ignora. Vogliamo solo essere felici, non ci importa di capire, pensa Roberta, e avanza a casa lungo il marciapiede, tra le luci dei negozi.

E poi sente una mano leggera sulla spalla.

È Caterina, le è corsa dietro.

- Ha dimenticato la borsa, professoressa.

- Grazie, non me n'ero accorta.

Finalmente si guardano negli occhi, tenendosi le mani.

- Sa che è dimagrita, professoressa. Ma proprio tanto. - Davvero?

- Davvero.

E poi Caterina è andata via, è scomparsa tra la folla. Roberta è rimasta ferma in mezzo alla strada. Le viene da ridere, da ballare. Ha una gran voglia che sia subito mattino, per tornare a scuola, se la scuola esiste ancora.



De: I professori e altri professori (Einaudi, Torino, 2003)
  


MARCO LODOLI è uno scrittore e giornalista italiano. Lodoli è nato a Roma, il 22 ottobre 1956. Laureato in lettere, è insegnante di Italiano in un istituto professionale della periferia di Roma. Dapprima scrittore di poesie, approda alla prosa con il romanzo. Ha pubblicato Ponte Milvio (poesie,1988), Grande Raccordo (1989) e la trilogia I principianti - comprendente I fannulloni (1990), Crampi (1992) e Grande Circo Invalido (1993) -; i volumi di racconti Cani e lupi (1995), I professori e altri professori (2003) e Bolle (2006); i romanzi Il vento (1996), I fiori (1999), La notte (2001), raccolti nel 2003 nella trilogia I pretendenti; Diario di un millennio che fugge (1997, prima edizione Theoria 1986), la raccolta di recensioni Fuori dal cinema (1999), e poi Isole. Guida vagabonda di Roma (2005), Snack Bar Budapest, con Silvia Bre (2008, prima edizione 1987), Sorella (2008), Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana (2009), Italia (2010), Vapore (2013) e Nuove isole (2014). Nel 2015, sempre per Einaudi, è uscito il volume Le promesse, che raccoglie Sorella, Italia e Vapore.

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